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Tante opere della letteratura e del cinema mondiale sono rimaste per troppo tempo dimenticate in scaffali ammuffiti o in umide soffitte.
Questa rubrica si propone di riscoprirle e di dare loro il risalto che esse giustamente meritano.



Titolo: COCCODÈ (La biografia dell'uomo pollo)

La biografia dell'uomo pollo
di Ismahel Harrabbah ;
Traduzione a cura di Gianangelo di Gianangelo, edizioni Procione, Napoli, 1989.
483 pagine, alcune delle quali macchiate di olio di semi di mais.
Prezzo £ 7.558 (pari a 3,31542431677ecc. Euro)


"Quando nacqui, mi pare che fosse notte, ma non ne sono troppo sicuro perché stavano dormendo tutti; solo mia madre era sveglia, ma al momento del suo parto sbucciava le seppie in un'altra stanza. Mio padre desiderava un cammello e non appena mi vide, si massaggiò gli occhi per cercare di piangere, e tentò di barattarmi con un mezzo da sbarco sovietico del '44. A casa la fame era la costante compagna del letto, e i miei sedici fratelli dormivano mordendosi le dita dei piedi a vicenda, mentre l'ultimo azzannava il legno della baracca. Erano gli anni della guerra, anche se non ricordo più quale."

Prende l'avvio con queste frasi ricche di significato il primo, toccante, capitolo dell'appassionata biografia di Ismahel Harrabbah, ornitologo musulmano famoso per i suoi studi sulla classificazione delle varie specie in cui si suddividono le tortore.
La prima parte del romanzo si apre con la descrizione della fanciullezza di Harrabbah, trascorsa nel tentativo di sfuggire alle molestie sessuali di un vecchio mercante ottomano di struzzi: quest'ultimo tentava sempre di adescare il giovane promettendogli un cesto di vimini pieno di vimini, oppure un trancio di salmone impanato e avvolto nella carta carbone. Poi si passa a narrare il primo lavoro di Ismahel per pagarsi gli studi, al pozzo di petrolio dello zio: fare la trivella umana è un'esperienza che lo segnerà per tutta la vita. Da quel momento in poi, non riuscirà ad andare in bagno se non avendo un pellicano come intermediario bancario. Il capitolo più interessante è sicuramente il dodicesimo, che parla della traviata vicenda all'Università di Ankara. Per anni condivise un appartamento con un certo Semion, senza riuscire mai a capire quale fosse il suo letto. Soltanto alla fine scoprì che il suo compagno di stanza si era nascosto nell'armadio per sette anni in segno di protesta, per migliorare il sistema fognario della città. Tentò, allora, di discolparsi dalle accuse di tentata cospirazione ai danni delle autorità e vilipendio in un reparto di ostetricia, ma il processo che ne scaturì fu condotto come una vera e propria attrazione da circo, chiamando a testimoniare due trapezisti, un domatore e il Clown Cajamir, che era il teste chiave. Il caso venne archiviato quando la Pubblica Accusa notò che il giudice si era dissolto in una nube gassosa al grido "Ottimo col pesce!". In seguito, però, Harrabbah fu sospeso dalle lezioni a tempo indeterminato per una divergenza di opinioni col Rettore riguardo alla disposizione degli orinatoi a muro nei bagni maschili: il ragazzo era convinto che diciotto centimetri non fossero una distanza da terra ragionevole alla quale piazzare le delicate porcellane.
Ma ecco scaturire il suo amore per i pennuti, un giorno di pioggia, sull'isola di Creta (Cap. Trenta). Stava osservando due piccioni avventarsi su un bue muschiato, quando un ladro gli sfilò di mano un sandwich al pollo, con stracchino, rucola e semi di papaia, e fuggì via. La vicenda lo turbò eccessivamente: raccontò l'accaduto al suo analista, senza accorgersi che il medico si era trasferito a Djakarta da due anni e faceva l'ammaestratore di polipi. La cosa lo rattristò tanto che stette tutta la notte a piegare i cuscini per riporli in una voliera dipinta a mano. La mattina successiva si decise ad esplorare il favoloso mondo dei pennuti, e finalmente si tolse dalle orecchie gli scampi che indossava da otto mesi. L'ultimo capitolo, il centoventottesimo, chiude la biografia spiegando, in maniera del tutto personale, il vero motivo per cui Harrabbah non si sia mai sposato: "Le donne non mi interessano", dichiara, "Non hanno nulla che un fagiano, per esempio, non abbia: due zampe, un becco robusto, un folto piumaggio, le uova. Ho conosciuto molte donne nella mia vita, ma mai nessuna ha potuto eguagliare, per bellezza, soavità e leggiadria, un colibrì. Guardate come si muove aggraziato, sbattendo le ali e dimenando il basso ventre! Nessuna donna farebbe ciò! E i merli? Dove li mettiamo i merli? Sensuali, vaporosi, provocanti… Non come la mia unica ragazza, Alina, che non riuscivo mai a capire se stesse ammiccando o avesse un conato di vomito!".

Ho trovato la lettura di questo libro molto stimolante, soprattutto perché i capitoli Sette, Venti e Ventitré sono scritti al contrario e si possono leggere solo allo specchio. La scrittura è chiara, lineare, asciutta, direi essenziale, tanto che su molte pagine, a volte, è stampata una congiunzione, un avverbio, un "Sì", e a pagina 311 c'è solo un'enorme parentesi quadra (che non verrà mai chiusa, ho controllato!). Non sempre l'attenzione del lettore è catturata in maniera vivida, troppo spesso capita di imbatterci in ripetizioni (da pag. 98 a pag. 116 l'autore scrive unicamente la parola Quaglia!), ma l'organicità degli intenti non viene mai messa in discussione, nemmeno quando, per provocazione, lo scrittore cita otto volte lo stesso episodio, quello del funerale di Raschid Abdullah nel giorno del matrimonio della Suocera, ma camuffandone il finale per trarre in inganno un lettore poco concentrato.
Per concludere, vorrei menzionare il riadattatore dell'opera, Gianangelo di Gianangelo, che ha il grande merito di aver accettato l'incarico, di aver poi imparato l'arabo, di saper scrivere, di possedere un auto d'epoca, di collezionare bersaglieri, di rifornirsi di Guaranà dal mio stesso distributore, di amare il seno alla francese, ma soprattutto di essere capace di fare tombola dopo aver estratto solo sette numeri!

SmileSmileSmileSmile

[Non posso dare di più, sebbene ultimamente io abbia la sgradevole sensazione di essere spiato…]

a cura di
Rodrigo Alvaro Simon Maria Palombo
Nota sul critico


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