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CAPITOLO III

La mattina seguente mi svegliai con la bocca impastata ed un amaro sapore di nicotina, il che mi sembrò strano, visto che io non fumo. Una vocina mi diceva di andare a curiosare nella villa di Eva. Spensi il walkman e la vocina cessò.
In tutta questa faccenda, oltre il cerchio, c’era qualcos’altro che non quadrava: se la polizia aveva chiuso il caso come morte naturale, dove aveva messo le chiavi? La morte di Julius Strandberg poteva, in qualche modo, ricollegarsi al rialzo termico causato dal buco nell’ozono? E soprattutto, perché mi facevo queste domande, visto che non mi rispondevo mai? La cosa puzzava; così mi cambiai i calzini.
Dopo aver aperto il frigorifero ed aver curiosato nel freezer per vedere cosa avevo fatto nel secondo capitolo, uscii. Mi avviai in auto verso l’abitazione di Eva Strandberg, ma a metà strada iniziò a piovere e mi dovetti fermare ai box per montare le gomme da bagnato. Durante la sosta studiai meglio la situazione.
Nella villa, oltre la bella Eva, viveva la servitù; c’era il maggiordomo, tale Frank detto “Marocco” perché nato in Patagonia, sebbene la madre non ci fosse mai stata. Poi c’era Felicia, la vecchia cameriera brontolona, che aveva 96 anni benché ne dichiarasse 32. Infine c’era Clara, di origine italiana, che, stranamente, faceva la babysitter pur non essendoci bambini nella villa.
Giunto a “Villa Eva” mi fermai vicino al cancello ed assunsi l’atteggiamento di un citofono per non dare nell’occhio. Nelle 14 ore in cui rimasi immobile imparai parecchie cose; la prima era: mai stare immobile per 14 ore. La seconda era: neanche per 15 minuti. In quel lasso di tempo dovetti sopportare: 325 cani che, al ritmo di uno ogni 2 minuti vennero a fare pipì sui miei piedi; un ramo di quercia che, a causa di un fulmine, mi colpì l’arcata sopracciliare destra; uno scontro a fuoco fra polizia ed un ladro che si nascose dietro di me. Ma quello che non sopportai fu una maledetta zanzara che aveva assunto un atteggiamento troppo disinvolto con il lobo del mio orecchio; così dovetti abbatterla con due colpi di pistola, più uno alla nuca per maggiore sicurezza.
Ormai ne sapevo abbastanza per entrare in azione, così mi feci aprire il cancello e mi avviai verso la costruzione stile coloniale che scorgevo a malapena in fondo ad un lunghissimo viale in salita. Giunto al portoncino d’ingresso feci cenno al maggiordomo che dovevo riprendere fiato. Quando mi tornò la voce erano andati tutti a dormire. Li avrei interrogati la mattina dopo.
All’alba fui svegliato da uno strano rumore, un incrocio fra una mitragliatrice ed una litania cerimoniale, quando mi accorsi che era Felicia, la vecchia cameriera, decisi di interrogarla.
- Scusi, lei ….
- … Felicia fai questo, Felicia fai quello…
- Senta, io sono …
- …… ma adesso basta. D’ora in poi voglio l’ordine scritto …
- Dove si trovava alle 23 del …
- … 23 volte gliel’ho detto, ma lui niente……
- … 27 aprile?
- … forse credono che io sia una schiava…
- … sitengaadisposizioneperchèlainterrogheròdinuovo.


Catalogai le risposte della cameriera sotto la voce “delirio”. Mentre me ne andavo mi voltai di scatto (esibendo una estemporanea “ruota” con l’impermeabile) e le chiesi a bruciapelo:
- Conosce Domenico Albicocca?
Finalmente smise (relativamente) di brontolare e, fissandomi con occhi meravigliati, mi rispose:
- Come fa (Felicia qui, Felicia là) a sapere … si, in effetti (Felicia questo, Felicia quello) il Dott. Albicocca frequenta, (Felicia giù, Felicia su) seppure saltuariamente la signora Eva, ma perché …
- Bene, la prossima volta che lo vede me lo saluti!

Rivolsi, quindi, la mia attenzione al maggiordomo che, a mio parere, era il maggiore indiziato, e questo per due validi motivi:

1) L’avevo letto in un giallo di Stan Komasano, in cui niente fa intuire che il colpevole è il maggiordomo, dal titolo: "Il Maggiordomo, quel lurido assassino!".
2) In un colloquio con il garzone della macelleria aveva ripetuto 7 volte la parola “fettine”.

Lo vidi scendere per le scale dal primo piano (tenete bene a mente questo importante particolare!) e mi avviai verso di lui. Da un lato volevo interrogarlo, dall’altro c’era qualcosa che mi tratteneva, come una forza oscura che quasi mi paralizzava e mi ottenebrava la mente, mentre vedevo il sudore sgocciolare dalle falde del mio cappello a circa 35 centimetri dal mio naso.
- Noto che il signore è un intenditore di antiquariato. - Esordì il maggiordomo indicando con un cenno della scapola qualcosa dietro di me.
- Cos….. – Mi voltai e vidi un monumentale tavolo antico di legno massello intarsiato, con sopra un vaso della dinastia del Meng e due enormi candelabri, il tutto agganciato al mio impermeabile e trascinato per circa tre metri.
Risolto il mistero della forza oscura che mi tratteneva, rimisi il tavolo al suo posto ed alla fine ero così stanco che decisi di prendermi un capitolo di riposo, prima di interrogare il maggiordomo.


***Illustrazione di Alessandro Colantuono***

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