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Tante opere della letteratura e del cinema mondiale sono rimaste per troppo tempo dimenticate in scaffali ammuffiti o in umide soffitte.
Questa rubrica si propone di riscoprirle e di dare loro il risalto che esse giustamente meritano.


Titolo: CORNA NELLE PAMPAS

Corna nelle Pampas
OPERA LIRICA IN TRE ATTI
di
GIANNI TOGNI
(che non è quel Gianni Togni, e nemmeno uno dei figli di Darix Togni!) ;


in scena all’ANTICO TEATRO BUE PEZZATO di Reggio Emilia.

Con (in ordine di reddito IRPEF):

Tenore: RENATO FESSERMEIER
Soprano: IRINA SKLOCINWSKAIA (in Fessermeier)
Basso: ANDREA RUSTU
Bassissimo: FEDERICO GRANDONI

Luci: ARISTIDE GIOVANNUCCI
Scenografie: PALISSANDRO COTOLETTA
Regia: MANUEL FANTONI (che non è il Manuel Fantoni del film di Verdone!)

Prezzo 55 € (ma si può entrare di nascosto dalla porta dei bagni dei tecnici. L’ho fatto. Non c’è pericolo!)


Mi sono seduto comodamente in poltrona che già era iniziato il terzo atto: un mio amico, che lo aveva visto, mi aveva raccontato gli altri due e, francamente, li ho trovati poco stimolanti. Amo ricordare questa lirica come un atto unico!
Assumo una posa da eroina pucciniana per l’occasione, ma la maschera mi riprende invitandomi a desistere, per evitare una sassaiola.
Accanto a me un vecchio signore tendeva l’orecchio verso la prima fila di palchi. Gli ho fatto gentilmente notare che l’opera si svolgeva da tutt’altra parte, ma quello, per risposta, mi ha zittito con un secco: “Ti pare che vengo a teatro per vedere i cantanti! E che sono, un fesso? Io ci vengo per guardare le belle gnocche!”.
Ah, il fascino sempreverde del teatro!
Quello che mi ha subito stupito era la scenografia: una cotoletta panata di tredici metri (ecco spiegato il perché dello scenografo!) comodamente adagiata sulle assi del palco, dalla quale spuntavano delle colonne doriche, e sul fondale un sole che rideva e guardava tutti con nostalgica diffidenza.
Rapito dalla musica dal vivo, suonata egregiamente da una piccola orchestra jazz composta da una tuba, un sax tenore, una cornamusa, un triangolo (rosso fosforescente) e dei piattini da tè, tutti suonati da una signora di mezz’età che dalle fattezze ricordava E.T., mi sono immerso, nel buio della sala, in un sonno profondo tormentato da piccoli incubi giovanili. Una serata che non dimenticherò facilmente!
Non ho mai messo in discussione la trama dell’opera, anche perché non aveva senso. Non che non l’avessi capita, c’era poco da capire: la tipica storia di un quadrato amoroso (lui/lei/l’altro/un catechista) ambientato su un enorme cotoletta argentina poco cotta.
Quello che mi sfuggiva era il contenuto dell’operazione! I vari perché di cui il dramma è permeato.
Anzitutto, perché ambientare la storia su una cotoletta? Perché non un rollè di carne di manzo? Perché non sopra una costata rumena? E tutti quei sandali? Bah! Poi, perché dare ai personaggi così poco spessore? E dire che i cantanti lirici sono piuttosto corpulenti. Si sarebbe potuto lavorare su questo eccesso di emozioni grasse!
Perché, ancora, l’uso ossessivo, e quasi maniacale, del recitativo su basso ostinato, contornato da sbalzi ritmici che si risolvevano su accordi armonici tonali? Perché non semplicemente canzoni natalizie? O Fox Trot?
E poi il finale! Chi spara, alla fine? Chi rimane ucciso? A chi gli condonano le tasse? Chi risolve l’enigma della sfinge di formaggio? Chi crede di essere un Condor delle Ande impagliato?
Troppi interrogativi, troppe domande che cadono nel dimenticatoio per creare un testo organico e soprattutto guardabile!
Ottima, direi la prestazione vocale degli interpreti. Salverei la Sklocinwskaia, anche se con tutte le sue ripetute stecche avrebbe potuto aprire una sala biliardi, o giocare a Shanghai! Sempre fisicamente presente il marito, Renato Fessermeier; purtroppo era leggermente fuori personaggio, poiché la parte del giovane studente ISEF non si addiceva troppo ad un cinquantenne effemminato di centododici chili di peso! Anche questo alimenta il mistero del Teatro d’Opera! Gli altri due bassi, Rustu e Grandoni, alla loro prima esperienza musicale dopo la libertà condizionata, se la sono cavata piuttosto bene, sebbene abbiano guardato troppo spesso le uscite di sicurezza con tragica voluttà, distraendo molti del pubblico in sala che sospettavano fosse in corso un incendio, o un congresso di ex bingodipendenti.
Non posso esprimere un giudizio sincero e spassionato su quel che ho visto, ma posso farvi entrare nell’atmosfera dell’opera, riportando un pezzo del libretto, anche se non dovrei per motivi di SIAE e di buon gusto. Ma crepi l’avarizia!

La musica scema, mentre il sax continua un’aria malinconica e pregnante

ENRIQUE: Io lo so che non puoi aver commesso tu quello che è stato commesso tanto tempo fa…
CONCITA: Sono al corrente di tutto. La cifosi non perdonerà.
ALONZO: Siamo qui, a Buenos Aires.
ENRIQUE: Le circostanze mi suggeriscono che menti. Perché hai quella pistola in bocca?
CONCITA: Non è una pistola… Passami quella brocca.
ALONZO: Buenos Aires.

La musica cresce ancora. Si sentono suonare le campane

CATECHISTA: Il tempo e il luogo sono contro di noi.
ENRIQUE: Se non è una pistola, io voglio uscire da questo impedimento.
CONCITA: Mi sarebbe piaciuto essere una coppia di buoi.
CATECHISTA: Buoi. Vacche, Tori. Che tormento!
ALONZO: Buenos…
ENRIQUE: Posso sentire la potenza di un torero argentino.
ALONZO: Aires.
CONCITA: Devo dire che ottimo questo pulcino.
CATECHISTA: Il toro ti guarda negli occhi, fremente.
ENRIQUE: Padre, lei è un vero demente.

La musica scarica una violenta sferzata di acuti, le campane crollano al suolo con fragore, sviene un tonno, i quattro si siedono sulle colonne e assumono stupefacenti

ALONZO: Non mi garba che siamo a Buenos Aires, proprio qui.
CONCITA: Non posso sostenere questa situazione.
CATECHISTA: Il cuore si gestisce così.
ENRIQUE: Padre, lei è giusto un coglione.

La musica cessa. La signora riprende fiato. Con un movimento coreografato, Enrique s’incastra in una botola sul proscenio e urla.

ENRIQUE: Concita! No, no, NO!
CONCITA: Enrique! Io amo Alonzo.
CATECHISTA: Mi denuderò.
ENRIQUE: Ma che stronzo!

Comincia l’aria di Alonzo. Gli altri tre scompaiono sotto alla cotoletta, il tenore compie un carpiato giungendo ai bordi dell’orchestra, dove misura quanto siano larghi i suoi passi.

ALONZO: Non c’è gregge, non c’è amore
se la mia città non vale il sudore.
Un unico gesto, una sola flessione,
e le strade mi portano questa canzone.
Buenos Aires
patria di tutta una vita,
tu che gemi solitaria,
in una melassa infinita,
senza cura dentaria…
Perché? Buenos Aires
Buenos… Aires


Gli sparano in pieno viso, stramazza al suolo contorcendosi.

Bisogna andare a vedere quest’opera. E’ sicuramente un dramma di rottura, affronta un tema scabroso, come quello della perdita della propria identità cittadina, in nome dell’affermazione di un homo mundi, almeno credo. Oppure è solo uno bizzarro polpettone che vede quattro cantanti che fanno un uso smodato di cocaina. Fa poca differenza.
Il segreto è portare con sé un buon digestivo, una compagna formosa e molto appariscente, e un CD di musiche di Piazzolla: serve sempre. Meglio improvvisare un tango che dare un giudizio critico su qualcosa che vi ha conciliato così bene il sonno (Uhm, da tenere a mente per gli spettacoli di Ronconi!).



[E’ il massimo che la mia coscienza può concedere. Dopo avrei dei rimorsi nei confronti del mio cane. Non posso dirvi il perché…]

a cura di
Rodrigo Alvaro Simon Maria Palombo
Nota sul critico


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